
Ci sono sostanze che finiscono nel nostro piatto senza che ce ne accorgiamo. Non hanno sapore, non si vedono, ma lasciano traccia. I fosfati aggiunti sono tra questi: invisibili, difficili da riconoscere, eppure onnipresenti in molti cibi industriali.
Il fosforo è un elemento fondamentale per il nostro organismo: serve per le ossa, per i denti, per l’energia, per la vita.
Ma (e questo è il punto) non tutto il fosforo è uguale. Quello naturalmente presente in alimenti come legumi, semi, cereali integrali, pesce o frutta secca viene assorbito lentamente, in equilibrio con gli altri nutrienti.
I fosfati aggiunti ai cibi industriali, invece, vengono assorbiti in modo quasi completo e immediato. Il nostro corpo li incamera velocemente, e quando diventano troppi, iniziano i problemi.
Perché l’industria alimentare li usa?
Semplice: perché sono versatili, economici, e funzionano. I fosfati aggiunti servono per:
• Allungare la conservazione dei prodotti
• Migliorare la consistenza, la cremosità o la “morbidezza”
• Mantenere un aspetto uniforme e appetibile
• Aumentare la resa tecnologica: legano acqua e grassi, aumentando il peso e il volume del prodotto senza aggiungere vero valore nutritivo.
In sostanza, aiutano a trasformare il cibo in qualcosa di più stabile, più “perfetto”, o semplicemente più "appetibile" per chi vende (visto che garantisce un maggior risparmio aumentando il peso del prodotto)… ma anche più lontano dalla natura.
Troppi fosfati: ecco perché dovremmo preoccuparci
Oggi è facilissimo superare la soglia di sicurezza.
Un adulto dovrebbe assumere circa 700 mg di fosforo al giorno, ma chi consuma spesso prodotti industriali (formaggi fusi, carni lavorate, bibite, dolci confezionati, prodotti fitness…) può arrivare a oltre 2000 mg, senza rendersene conto.
L’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), nel 2019, ha fissato per la prima volta una dose giornaliera accettabile: 40 mg per kg di peso corporeo.
Per un adulto di 70 kg, parliamo di 2,8 g al giorno. Ma molti studi ci dicono che in alcune fasce della popolazione – come adolescenti o persone che assumono integratori – questo limite viene superato con facilità.
E allora, cosa succede?
• Si altera il delicato equilibrio tra calcio e fosforo: con conseguenze su ossa e reni
• Aumenta il rischio di calcificazione dei vasi sanguigni, un fattore che pesa sul cuore
• Si compromette la funzione renale, anche in soggetti sani
• Si riduce l’assorbimento di calcio, ferro, magnesio, minerali fondamentali
• Si può alimentare uno stato di infiammazione cronica, che accelera l’invecchiamento
• Peggiora la funzione muscolare, con perdita di energia e performance
Uno studio dell’Università di Basilea ha mostrato che un’alimentazione ricca di fosfati può aumentare pressione sanguigna e frequenza cardiaca anche in giovani adulti sani.
Altri lavori suggeriscono un legame con minor resistenza fisica, maggiore fatica muscolare e impatto negativo sul metabolismo.
Una questione (ancora) poco regolamentata
Il paradosso è che anche se l'EFSA si è espressa parlando di "dose accettabile", non esiste ancora un limite chiaro per la popolazione generale perché non è possibile capire quanto se ne stiamo assumendo.
Infatti, è vero che l'Unione Europea stabilisce limiti massimi di fosfati per singole categorie alimentari, ma il consumatore, anche se si volesse mettere a "fare i calcoli" non saprebbe da dove cominciare per arrivare al "totale giornaliero" perché sebbene possa in parte stimarne la quantità negli alimenti freschi, non può fare lo stesso con i prodotti dall'industria dal momento che i fosfati compaiono con sigle poco intuitive: E338, E339, E340, E341, E343. Nessuna indicazione sulla quantità presente, nessun aiuto concreto per capire.
Negli integratori vige ancora il principio del quantum satis: “quanto basta”, senza un limite numerico preciso. Un vuoto normativo che, di fatto, permette all’industria di continuare ad aggiungerli in dosi significative.
Ma non finisce qui. Anche l’agricoltura convenzionale fa ampio uso di fertilizzanti fosfatici, in particolare di fosfati inorganici e ortofosforici, per aumentare la resa dei raccolti.
Queste sostanze possono accumularsi nei terreni e, in parte, essere assorbite dalle piante, entrando nella catena alimentare in modo indiretto ma potenzialmente rilevante.
Inoltre, il loro impiego intensivo ha impatti ambientali ben documentati, come l’inquinamento delle falde, l’eutrofizzazione delle acque e l’impoverimento del suolo.
A complicare ulteriormente il quadro, c’è poi la questione delle acque potabili e minerali.
In alcune zone, la presenza di fosfati è dovuta all’aggiunta volontaria per prevenire la corrosione nelle tubature, oppure a fenomeni di contaminazione agricola o industriale proprio in riferimento a quanto appena detto.
Anche in questo caso, la normativa può fissare dei limiti massimi, ma l’etichettatura non sempre li riporta chiaramente, né informa sull’origine o sulla forma chimica dei fosfati presenti.
Si tratta di una fonte di esposizione spesso trascurata, che può contribuire in modo significativo all’assunzione totale.
Ricapitolando, si può dire che, anche se i residui nei vegetali non sono paragonabili alle quantità presenti nei prodotti trasformati, la somma di tutte queste fonti – alimenti industriali, acqua, agricoltura – rende sempre più difficile valutare l’esposizione complessiva ai fosfati.
Cosa possiamo fare, nel concreto
Anche in questo articolo torno a ribadire che non serve essere estremisti. Serve essere svegli.
1. Leggi le etichette. Se trovi E338–E343, ci sono fosfati.
2. Riduci il consumo di cibi ultra-processati: formaggi fusi, salumi industriali, snack, dessert confezionati, cibi pronti. (Se dovessi esprimere un parere nutrizionale, direi di eliminarli del tutto ma al contempo capisco che privarsi totalmente di qualcosa che si è abituati a consumare da sempre possa, per quanto non necessariamente, portare a ricercarlo in maniera incontrollata perció ridurre nella speranza, poco per volta, di riuscire a farne a meno, forse è la strategia più proficua che si possa mettere in atto. La psiche non va mai messa in secondo piano ma dovrebbe muoversi tutto di pari passo tra presa di coscienza e necessità irrazionali. A riguardo potrebbe essere utile fare un approfondimento su eventuali sostituzioni di prodotti di questo tipo con alternative più accettabili ex un salume realizzato artigianalmente rispetto a uno industriale. Alcuni aspetti negativi dei salumi ci saranno sempre, primo tra tutti l'alto contenuto di sale, però è pur sempre il male minore e conta l'obiettivo che si vuole raggiungere cioè non il punto di arrivo ma il progresso fatto.)
3. Torna al cibo vero. Quello che si cucina, si mastica, si assapora.
4. Non farti ingannare da confezioni “light” o “sport”: anche lì si nascondono spesso i fosfati.
In conclusione
I fosfati aggiunti sono un esempio lampante di come l’industria alimentare riesca a trasformare gli alimenti in qualcosa di profondamente alterato, lontano dal concetto originario di nutrimento.
Noi possiamo scegliere. Non tutto, certo, ma molto.
E ogni scelta consapevole è un messaggio forte – per la nostra salute e per il futuro del cibo.
Mangiare bene non è una moda. È un atto di rispetto verso noi stessi.
Fonti scientifiche
1. EFSA Panel on Food Additives and Nutrient Sources added to Food (ANS), 2019. Re-evaluation of phosphates as food additives. EFSA Journal 17(6):5674.
https://www.efsa.europa.eu/en/efsajournal/pub/5674
2. EFSA Press Release, 2019. High phosphate levels could be a health risk.
https://www.efsa.europa.eu/en/press/news/190612
3. Caldeira D et al., 2020. Phosphate additives in food — a health risk. International Journal of Environmental Research and Public Health, 17(12), 4292.
4. Gutiérrez OM. Phosphate in food and its effect on the kidney. Advances in Chronic Kidney Disease. 2011;18(2):132–144.
5. Ritz E et al. Phosphate additives in food—a health risk. Dtsch Arztebl Int. 2012;109(4):49–55.
6. Universität Basel, 2018. High-phosphate diet increases blood pressure and heart rate.
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